Corriere di Bologna
4 luglio 2015
Fernando Pellerano
Nel 2016 Bologna avrà il suo Memoriale in ricordo della Shoah. Cinque giorni fa la giuria del concorso internazionale promosso nel gennaio 2015 dalla Comunità Ebraica cittadina ha scelto, fra i quattro finalisti, il progetto migliore. Hanno vinto 5 giovani architetti romani: tutti poco più che trentenni e non ancora riuniti in un loro studio associato (vedi intervista sotto). Primi fra le 284 proposte arrivate nella fase iniziale (750 progettisti), il 30% delle quali da ogni angolo del mondo, con architetti famosi come Zvi Hecker, che ha realizzato il Museo di Tel Aviv.
Il monumento sorgerà all’estremità della nuova stazione dell’Alta Velocità, all’angolo fra via Carracci e il ponte Matteotti, e sarà pronto per l’inizio del prossimo anno, in tempo per celebrare la Giornata della Memoria del 27 gennaio. Opera essenziale, geometrie in metallo, di grande impatto visivo e con forti aspetti esperienziali. Tagliente, scarna e dura come fu la vita nei campi di concentramento durante l’Olocausto. Promossa quasi all’unanimità dalla giuria presieduta dall’architetto Peter Eisenman, autore del Memoriale di Berlino, insieme a Felipe Goodman del Temple Beth Sholom di Las Vegas, congregazione che ha contribuito più di tutti nel sostenere il concorso, finanziato anche dalla Fondazione del Monte con 120 mila euro (oltre al supporto del Comune di Bologna, dell’Ordine degli architetti e delle Ferrovie dello Stato).
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«Sassi, rumore del vento e spazi vuoti Così ricorderemo quell’angoscia»
Onorato di Manno è uno dei cinque architetti vincitori del concorso per il Memoriale della Shoah (insieme ad Andrea Tanci, Gianluca Sist, Lorenzo Catena e Chiara Cucina). Nati fra l’82 e l’84, laureati nella loro Roma (solo Chiara, unica donna, è friulana), grandi amici, ma non ancora sotto lo stesso studio.
«Lavoriamo in studi diversi, ma abbiamo partecipato al concorso con l’obbiettivo di vincere e misurare le nostre capacità, creando i presupposti per l’apertura del nostro studio: Set. Quello cinematografico, perché ci intriga il concetto dell’architettura vista come una quinta, uno sfondo della vita di tutti i giorni».
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