Il Sole 24Ore
2 luglio 2017
Guido Beltramini
Non succede quasi mai. Mi viene in mente la Strada Novissima della Biennale del 1980 o la mostra Deconstructivist Architecture al MoMA nel 1988. Intendo dire che sono assai rare le mostre di architettura contemporanea in grado di andare oltre l’informazione per diventare commento e riflessione. Di queste, pochissime si impongono come dichiarazione, manifesto. È quanto ha fatto con ars maieutica il Canadian Centre for Architecture di Montreal con la mostra Beside, History, dove la curatrice Giovanna Borasi ha messo insieme il lavoro di un progettista giapponese, Go Hasegawa e dei due belgi Kersten Geers e David Van Severen, che lavorano sotto il nome collettivo di Office. Accanto agli architetti due fotografi, Stefano Graziani e Bas Princen e la stessa Borasi, che più che levatrice platonica di questo gruppo è una compagna di strada. (...) La stessa mostra è un sorprendente lavoro collettivo dove i belgi di Office hanno ridisegnato per l’esposizione i progetti di Hasegawa e viceversa.
(...)
Forse mai quanto in questi anni, in cui il presente cambia tanto rapidamente davanti ai nostri occhi, lo studio del passato sembra l’unico in grado di dare una dimensione critica al presente. È la scommessa di un gruppo, che si riconosce anche in un patto generazionale, e che se non riassume tutte le sperimentazioni in corso (penso ad esempio, in Italia, al lavoro di Alessandro Scandurra) comunque costituisce la voce più strutturata in circolazione. Si badi bene, non sono degli umanisti, questi tendono a correre veloci, anche per non lasciare troppo vantaggio alle generazioni che l’hanno preceduti. Tuttavia, ciò che rende i believers diversi da altri è il fatto che, nelle immagini dei fotografi come negli edifici degli architetti, alla fine quella che vince è la forma. Non le chiacchere dei teorici, ma la tangibile bellezza della architettura.