Il Sole 24Ore
29 gennaio 2017
Salvatore Settis
«Gli errori dei medici finiscono sottoterra, gli errori degli architetti sono sotto gli occhi di tutti»: questo aforisma circola in molte varianti, fra cui una attribuita a Frank Lloyd Wright («i medici possono seppellire i loro errori, gli architetti possono solo coprirli con piante rampicanti»), che con qualche irriverenza potrebbe adattarsi agli “eco-grattacieli” del nostro tempo. Ma lasciamo perdere queste spiritosaggini: la verità è che fra “gli errori dei medici” che danneggiano e qualche volta uccidono i pazienti, e gli errori degli architetti, che devastano il corpo sociale riempiendo di orrori città e campagne, c’è davvero una forte analogia. Lo spazio in cui viviamo è un formidabile capitale cognitivo che costruisce l’identità collettiva delle comunità. La frammentazione territoriale, la violenta e veloce modificazione dei paesaggi, il dilagare di periferie-sprawl, il moltiplicarsi di rovine, discariche, non-luoghi residuali che crescono con una malata obesità, innesca patologie individuali e sociali, sradica le identità acquisite e modifica i comportamenti, segna di piaghe indelebili il corpo della società.
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È in questo contesto che il vero e proprio testo di un “giuramento di Vitruvio” è stato scritto, da professionisti del Centro Studi Vitruviani di Fano e del Dipartimento di Architettura di Ferrara, e adottato dall’Ordine degli architetti di Reggio Emilia, presieduto da Andrea Rinaldi, lanciando la proposta che esso venga accolto e adottato da altri Ordini in tutta Italia. Qualche volta (anche stavolta?) una “modesta proposta”, anche se fatta sottovoce, trova forti echi nella società, specialmente quando un duro trauma l'abbia colpita.
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