la Repubblica 
16 gennaio 2017
Marco Belpoliti

 

Non so se capita anche a voi, a volte davanti a certe architetture mi domando: cosa pensava chi ha progettato questa casa, questo palazzo, questa scuola, questo museo? Avrà immaginato, mentre faceva gli schizzi, mentre disegnava e passava al computer la sua idea, che dentro quello spazio ci saranno delle persone che lo vivranno ogni giorno? Persone concrete che apriranno porte e finestre, saliranno le scale, sosteranno nei pianerottoli, cammineranno nelle stanze. Non è poi un pensiero peregrino se un importante studioso dell’architettura come Henry Plummer apre il suo volume “L’esperienza della architettura” (Einaudi, traduzione di Cristina Spinoglio) ricordando che uno degli aspetti essenziali dell’architettura «è la proprietà che hanno gli edifici di incoraggiare oppure svilire le attitudini spontanee degli esseri umani». (...)

Plummer esamina le scale di Carlo Scarpa alla Fondazione Querini Stampalia, a Venezia, che creano un movimento ondulatorio simile a quello di una barca: serpeggiano e svoltano scendendo verso il canale. Guardando e leggendo queste pagine, quelle sulle finestre e sulle porte, sulle maniglie e i chiavistelli, sulle trasparenze e le opacità, non si può convenire su un fatto che Plummer sottolinea con forza: «il nucleo autentico della natura dell’uomo risiede nella sua capricciosità e nella sua imprevedibilità e nel suo rifiuto di far parte di categorie o di essere limitato nelle decisioni altrui». Ci pensano a questo, alla capricciosità, non alla propria ma a quella di tutti gli altri uomini, i progettisti di edifici contemporanei? Gli uomini vogliono poter decidere le proprie linee d’azione. Molti edifici ci opprimono. Come si fa a vivere e lavorare per ore e ore in spazi opprimenti, che mortificano la capacità innata di forgiare lo spazio intorno a sé? 

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