Corriere della Sera
15 novembre 2016
Vittorio Gregotti
L’architettura del Movimento Moderno in Italia ha una lunga tradizione di studi dedicati all’architettura «popolare» o «spontanea» europea maturata su due fronti: quello che guarda agli insediamenti di piccola scala nel loro processo culturale e sociale di costituzione e nei modi concreti di costruire o meglio di autocostruirsi, con i materiali e le tecniche delle culture dei luoghi. E in genere questa prima categoria è connessa alla produzione agricola o alla presenza dell’acqua, con piccoli insediamenti di origini antiche, religiose o meno, con sviluppi legati al mutare dei climi e degli eventi storici, ed alle loro localizzazioni su terreni accidentati.
Il secondo fronte è invece connesso allo sviluppo, pianificato o meno, che muove soprattutto (anche se vi sono importanti eccezioni) dall’inizio dello sviluppo massiccio dell’era industriale alla fine del XVIII secolo e dalla possibilità di lavoro offerte dalla città vicina. Naturalmente non mi riferisco qui alle periferie delle città africane e coloniali, né agli sviluppi nei nostri anni delle periferie del Terzo Mondo.
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Credo che sia proprio su questa tradizione che si innesti la tesi del «rammendo» delle periferie di Renzo Piano che non va in alcun modo sottovalutata, anche perché ha risollevato il tema generale dello stato disastroso di molte periferie e della loro condizione monoclasse e con scarsi servizi cioè di un insediamento che non può certo essere definito città.