la Repubblica
7 ottobre 2016
Mariano D’Antonio
I grandi progetti d’investimento sono una tentazione permanente, specie nel Mezzogiorno. Compaiono e scompaiono in maniera ricorrente dalla discussione pubblica, dai propositi del governo e dei partiti, dalle notizie di stampa, dall’interesse dei cittadini. Tipico è il caso del ponte per attraversare lo stretto di Messina. Se ne parla a intermittenza da trent’anni, fino a ieri sembrava sepolto definitivamente ma in questi giorni è stato riesumato da Renzi che ora vi attribuisce meriti smisurati come la creazione di centomila posti di lavoro. (...)
I grandi progetti rispondono infatti all’aspettativa messianica della manna che cade dal cielo per soddisfare fame e sete della povera gente. Non costano ai beneficiari, magari saranno finanziati come ogni spesa pubblica con le tasse pagate soprattutto dai benestanti, dai contribuenti del Nord d’Italia. E poi i grandi progetti danno lavoro e reddito ai lavoratori, ai disoccupati meridionali che sono sempre tanti in una terra priva di attività produttive, di imprese sufficienti. I grandi progetti presentano però alcuni inconvenienti, portano con sé alcuni difetti innegabili. Prendono tempo prima di essere completati e procurare benefici alla popolazione.
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Un esempio di progetti leggeri sono gli interventi nelle periferie di alcune città avviati e coordinati dall’architetto Renzo Piano, il quale ha destinato a questo scopo l’indennità che percepisce come senatore a vita. Renzo Piano ha chiamato questi progetti interventi di rammendo urbano, cioè di ricucitura di un tessuto abitativo, di una condizione urbana slabbrata. Sono interventi progettati da un gruppo di giovani architetti che Renzo Piano ha reclutato con un bando di borse di studio e riunisce periodicamente in una stanza del palazzo del Senato discutendo con i giovani reclutati il lavoro che svolgono nelle periferie di tre città italiane (Torino, Roma e Catania).
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