ilgiornaledellarchitettura.com
17 settembre 2016
Pietro Valle 

 

Un terremoto mette a nudo il rapporto che una comunità e i suoi governanti hanno con lo spazio fisico. La ricostruzione che ne segue fa emergere, in tempi più lunghi, le attese degli abitanti, la loro reale volontà d’investimento sull’ambiente. Non è facile individuare nel breve periodo quali saranno le linee di sviluppo di un insediamento dopo un evento traumatico. La retorica della comunicazione del terremoto di Amatrice ha immediatamente elaborato promesse di ricostruzione e sogni di tecnologie leggere. Ma sia la logica del “dov’era com’era” sia quella delle nuove comunità non hanno finora funzionato.

Nella ricostruzione del Friuli dopo il 1976 si è edificato il doppio del necessario, assommando ai centri storici uno sprawl suburbano polverizzato. Nel recente sisma dell’Aquila del 2004, ai centri lasciati semi-pericolanti si sono affiancate le aliene comunità del progetto C.A.S.E., dividendo la comunità in due luoghi entrambi rimasti incompiuti. Nel primo caso si è affidata la ricostruzione ai cittadini ed essa ha accelerato un processo di fuga verso la casa individuale in proprietà. Nel secondo, si è dirigisticamente ordinata una nuova città che è stata imposta agli abitanti quasi dimenticandosi di quella precedente. In entrambi, la ricostruzione non ha risolto né il problema dell’esistente né quello dell’integrazione dei nuovi insediamenti. Soprattutto, non ha previsto alcuno sviluppo nel lungo periodo che desse una prospettiva ai territori colpiti. (...)

E dunque, perché ricostruire a tutti i costi? Il sisma di Amatrice ha operato una sorta di dissezione che ha esibito le contraddizioni degli insediamenti esistenti: centri storici pericolanti, edifici recenti dai piedi di sabbia, sviluppi immobiliari incompiuti, seconde case sottoutilizzate, borghi irraggiungibili, strade poco mantenute, parti di territorio non mappate. Questo stato di entropia richiede una forma di progettazione in negativo: togliere, sottrarre, liberare, levare, dismettere, riappropriare, ma anche lasciare le cose seguire un proprio corso riduttivo già latente. Se si dovrà sostituire, bisognerà farlo con forme che sappiano relazionare l’esistente e il temporaneo. È questo forse il pensiero per una strategia d’intervento su cui riflettere prima di “fare” un’altra volta commettendo gli stessi errori dei sismi precedenti.

(...)

 

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