Corriere della Sera
7 luglio 2016
Vittorio Gregotti

 

Che relazione esisteva dopo il 1945 tra gli scarsi eredi del movimento moderno e la storia delle sue relazioni con i Paesi coloniali extraeuropei? Non parlo qui né degli Stati Uniti o del Giappone ma di quelli in sviluppo, rapido o lento, in via di indipendenza, nordafricani o sudamericani. Vi sono alcuni architetti, specie tra le giovani generazioni, che, come atto di rinnovamento, muovono oggi i loro interessi verso i Paesi poveri cercando anche di affrontarne le difficoltà e di estrarre da esse nuovi principi del costruire e delle sue forme. Altri trasferiscono imperiosamente nei centri urbani con grandi edifici, le forme alla moda dell’attuale globalismo finanziario della visibilità dei poteri, altri ancora pensano di poter proseguire il trasferimento dei modi attuali di concepire il modernismo dei Paesi un tempo dominanti, assumendo talvolta persino qualche elemento folcloristico dai Paesi in via di sviluppo, in una continua contesa intorno alla nozione di dominio.

Raramente si è scritto, come in questo volume dal titolo Warm modernity a cura di Maddalena D’Alfonso (Silvana Editoriale, pagine 224, e 25), cosa è avvenuto dopo più di mezzo secolo intorno a tale incontro (o scontro) che è arricchito anche dalle indicazioni bibliografiche ampie contenute nel volume. Lo scopo del libro è di ricordare alcuni momenti significativi nello sviluppo dell’idea di Movimento Moderno in quei Paesi, in quattro casi affrontati in India dopo la sua indipendenza, tenendo conto anche delle influenze precedenti a partire dall’inizio del ventesimo secolo delle idee di Ebenezer Howard, Raymond Unwin, Heinrich Tessenow, Ernest May e Patrick Geddes.

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