la Repubblica 
20 marzo 2016
Carlo Ratti

 

Purtroppo non ero a New York il 12 ottobre 2013. Quel giorno Banksy, uno degli street artist più noti al mondo, aveva architettato un gesto particolarmente beffardo. Ingaggiando un anziano venditore ambulante, aveva allestito a Central Park un piccolo banchetto di disegni firmati: riproduzioni in piccola scala dei suoi graffiti. Così, senza saperlo, i passanti che hanno acquistato quei quadretti per poche decine di dollari si sono ritrovati tra le mani opere d’arte di notevole valore, di solito contese dalle case d’asta internazionali.

Quest’azione provocatoria, filmata e condivisa su Internet dallo stesso Banksy, non sarebbe stata possibile se non per un semplice fatto: nessuno conosce ancora il suo volto. Nel corso del tempo, l’anonimato di Banksy è diventato a tutti gli effetti un elemento di attrazione a sé stante, il quale — insieme allo spirito caustico dei suoi disegni e stencil — ha contribuito a un successo su scala mondiale.

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In architettura stanno emergendo nuove istanze aperte, simili per certi versi a quelle dell’open source nel mondo dell’informatica. La collaborazione tradizionale tra architetti e ingegneri si allarga a nuove discipline, ma anche a clienti, utenti e a un pubblico più vasto. Come sognava già negli anni Ottanta l’olandese John Habraken, il progetto sta diventando l’anello di una catena evolutiva più allargata. 

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