Corriere della Sera
6 febbraio 2016
Silvia Nani
Edifici traslati in oggetti, un salto di scala dal grande al piccolo a cura di chi è abituato a confrontarsi con le architetture e i progetti di interni, e oggi si applica sempre di più (anche) a disegnare un singolo arredo. Divertimento colto oppure esigenza di legare in modo più stretto lo spazio agli oggetti che lo popolano? Sperimentazione o necessità, in un contesto di soluzioni sempre più «chiavi in mano»?
Il rimando immediato è Gio Ponti che, per una committenza alto borghese, negli anni 50 disegnava e arredava luoghi, in qualche caso arrivando persino a progettarli integralmente, dall’architettura al più minuto dettaglio (per Villa Planchart, a Caracas, creò persino il servizio di piatti). «Un’attitudine all’“oggetto integrato” che ha i suoi precursori nella Secessione, da Victor Horta a Josef Hoffmann e Adolf Loos. Un altro fautore fu Le Corbusier che per il suo “appartamento 50”, disegnò tutto, inclusi i rubinetti, le maniglie e il campanello», commenta Alessandro Mendini, lui stesso autore di commistioni tra progetti di spazi e design di arredi, il quale legge questo fenomeno come un modo per umanizzare l’architettura: «Introducendo psicologia negli ambienti, ovvero aggiungendo personalità e sex-appeal a una struttura per sua natura rigida e spesso poco attraente».
Indubbio che un’affinità, progettuale ed estetica, tra questi due ambiti rimane: basta guardare il nuovo divano Gemma di Moroso, ideato da Daniel Libeskind (e presentato ieri a New York nel negozio Moroso a Soho), spigoloso e geometrico come molti suoi edifici.
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