Corriere della Sera
8 febbraio 2016
Sergio Rizzo
Degrado del calcestruzzo. Corrosione delle armature metalliche. Infiltrazioni dappertutto. Ambienti devastati. Strutture vandalizzate. Impianti fatiscenti. Locali tecnici prossimi al collasso. Aiuole ridotte a boscaglie incolte. Il tutto circondato da una groviera d’asfalto. Così, dice la fotografia scattata da una perizia giurata, muore un gioiello dell’architettura.
Muore nell’indifferenza generale, sbranato dall’incuria e dall’abbandono. Così, insieme allo stadio Flaminio, nel cuore di Roma, a poche centinaia di metri da piazza del Popolo, muore un pezzo della nostra storia. Muore l’Italia delle Olimpiadi del 1960, l’Italia della Dolce vita, l’Italia felice del boom economico.
E pensare che per evitare il decesso basterebbero 5 milioni 925 mila euro più Iva. È il calcolo che hanno fatto due ingegneri, periti del tribunale di Roma a cui il Comune si è rivolto perché quantificassero i danni causati dall’assenza di manutenzione che si protrae da cinque anni. Sei milioni di euro: due milioni in meno rispetto alla spesa sostenuta nel 2014 dal Campidoglio, proprietario dello stadio, per l’assistenza ai pellegrini in occasione della beatificazione congiunta di Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII; un settimo addirittura di quanto spenda ogni anno per gli arbitri la Federazione gioco calcio del Coni, ente pubblico concessionario dell’impianto comunale per 54 anni, fin dalla sua edificazione.
Il Flaminio viene inaugurato il 19 marzo 1959, un anno e mezzo prima dell’inizio dei Giochi olimpici. Lo stadio è stato realizzato su disegno dell’architetto Antonio Nervi con il progetto strutturale di suo padre, il grande Pier Luigi Nervi che in quegli anni sta firmando alcune fra le più ardite opere di ingegneria, come il grattacielo Pirelli di Milano.
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