Il Sole 24Ore
25 ottobre 2015
Nicola Gardini
I paesaggi mentali dell’infanzia sono quelli che ho tentato di difendere il più possibile dal confronto diretto con i luoghi reali da cui li avevo tratti leggendo o guardando qualche libro illustrato. A Cnosso sono stato solo poche settimane fa, a cinquanta anni suonati. Ho fatto male ad aspettare tanto. All’età che ho adesso la vista di tanta falsificazione non poteva procurarmi che dispetto e vergogna. Ho sì riconosciuto le immagini su cui avevo nutrito da bambino la mia fantasia, ma i meccanismi di una ormai lunga abitudine all’amore delle lacune hanno impedito l’insorgere di qualunque felicità.
Se Cnosso oggi rappresenta qualcosa quel qualcosa è un’ennesima, anche troppo sgargiante bandiera dell’imperialismo inglese, nella fattispecie esteso alla conquista della stessa antichità. Sir Arthur Evans, l’allora direttore dell’oxoniense Ashmolean Museum e direttore degli scavi, non fu contento di quello che il tempo aveva conservato e si diede ad aggiungere pezzi, a imporre contorni ai profili consunti, a imbellettare e verniciare pareti, inventandosi le funzioni di gran parte degli spazi. Un piano nobile saltò fuori non dai colpi di pala, ma dalla sua determinazione a trovarne uno sullo schema dei palazzi rinascimentali.
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Ma perché ce l’avevo e ce l’ho tanto con quello che Evans ha fatto? Perché c’è ancora troppa gente che la pensa come lui; perché l’avvicinamento del nostro presente a una qualunque parte del passato si esprime ancora troppo spesso in una richiesta di recupero azzerante, di nullificazione storica: perché guardare i reperti della storia deve essere un tornare a com’era prima, abolita ogni coscienza e ogni sentimento della distanza. Insomma, pochi, troppo pochi sono quelli che trovano felicità nelle sole tracce. Si vuole vedere il nuovo anche se si tratta del vecchio. La rovina è insufficiente, è brutta, è incomprensibile.
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