Il Sole 24Ore
7 giugno 2015
Laura Leonelli
La direzione la decide quel cielo fucsia, alieno e artificiale, che accoglie i visitatori all’ingresso della mostra di Olivo Barbieri al MAXXI di Roma. Un ingresso “colonne d’Ercole”, modernissimo per tecnologia, di memoria classica per forza simbolica, attraverso cui entrare in un’altra dimensione di spazio e di tempo, quella stessa dimensione, lontana dai ritmi tradizionali del giorno, della notte e dei loro accadimenti, nella quale Barbieri si è spinto più di trent’anni fa e che da allora è diventata il suo sguardo sul mondo. Guardare l’immensa vetrata del museo che riproduce il cielo allucinato di Singapore, cielo di flipper e di Van Gogh, suggerisce anche l’idea di sovvertire il percorso della mostra. Meglio iniziare dalla fine allora ripercorrendo le megalopoli di site specific, magari Las Vegas, summa enciclopedica di ogni eccesso urbano, vero flipper in tre dimensioni, e ritornare all’inizio, a quel Viaggio in Italia del 1982, iniziatico per Olivo Barbieri perché quel che importava era il viaggio, e l’Italia, persino nella sconosciuta piazza del Pavaglione di Lugo, era già site per antonomasia, luogo e circostanza carichi di significato, ed era già specific, perché attraverso la sua singolarità storica e geografica si poteva accedere a una visione più ampia, un oltre e un altrove che l’illuminazione artificiale rendevano plausibili.
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Impaginare un fotografo. Parla il curatore
La domanda è questa: che cosa offre un artista a un curatore? Perché di solito, nella prassi di un lavoro così prezioso e difficile, è l’autore il centro della riflessione e il punto iniziale e finale di ogni “cura”.
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viene spontaneo chiedere a Francesca Fabiani, curatore e responsabile delle collezioni di fotografia del MAXXI, che cosa sente di aver ricevuto da un autore insieme a cui lavora da tanti anni
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