Il Sole 24Ore
26 aprile 2015
Fulvio Irace
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In poco più di un quarto di secolo, Piano insomma ha battuto ogni record nella storia dell’architettura moderna, trovandosi nella incredibile posizione di dare un volto a tutte le principali istituzioni della democrazia americana: giornali, musei, università, biblioteche, eccetera. Le ragioni di queste performance dovranno essere studiate con calma nel futuro, ma certamente va riconosciuto nel suo pragmatico empirismo una delle chiavi più appropriate per comprendere la profonda empatia tra la sua architettura e la cultura di un Paese che, quando non si fa sopraffare dal cinismo commerciale (come nella ricostruzione di Ground Zero), continua a stupire per una forma particolare di libertà che consiste nel rifiuto dello scontato e dell’impossibile, nel rigetto del formalismo convenzionale e nella capacità di prendersi il rischio di decisioni a prima vista controcorrente.
Di tutte queste caratteristiche il museo di Piano rappresenta la sublimazione europea: le assume cioè e le declina in un’accezione che aggiunge altri valori, secondo uno schema in fondo rappresentato da buona parte della collezione del Whitney stesso. Artisti americani non sono solo quelli nati in patria, ma anche quelli che hanno scelto l’America come terra d’elezione, ibridandola con valori e punti di vista che rendono più forte la democrazia.
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